01/ 10/2010
NICOLA ZITARA, UN MAESTRO
Nicola Zitara ha ceduto. Quando un maestro muore, il suo insegnamento rimane; per questo non si può dire che i maestri muoiano mai, davvero. Zitara aveva scritto Unità d’Italia: nascita di una colonia e Memorie di quando ero italiano. Ma con i suoi articoli aveva lucidamente spiegato, sino all’ultimo, in quali modi l’economia tiene soggette regioni della Terra condannate a ruoli subordinati. Come il nostro Mezzogiorno. È stato guida di molti. Lessi il suo primo libro che ero poco più di un ragazzo; ma lui lo incontrai solo pochi mesi fa, a casa sua, a Siderno. Mi raccontò una storia che mi parve metafora della storia dei meridionali, dall’Unità a oggi. Era felice e sorpreso del successo di Terroni: «Vuol dire che c’era chi aspettava di sapere, chi è interessato alla nostra storia», diceva. «Dopo tanto tempo, non ci credevo più». Quando uscii da casa sua, scrissi qualcosa, per fermare i pensieri di quell’incontro. Eccoli.
«Ti vuole conoscere», mi dicono. Nicola Zitara è ormai un esserino scarnificato, nel letto che condivide con il cancro che lo sta uccidendo; i tubicini che escono dalle lenzuola nascondono l’indecenza del male sotto il letto. Ma gli occhi, nerissimi, enormi olive senza distinzione di colore fra pupilla e iride, sono di vivezza e intelligenza giovani e roventi. Gli porgo la mano. «Gira da quest’altra parte», fa, «voglio abbracciarti. Sei stato bravo». I suoi allievi ed estimatori lo venerano, solleciti e discretissimi. Quando escono, per lasciarci soli, li segue con lo sguardo: «Tutto questo affetto, queste attenzioni…», mormora, «non credi che stia ricevendo più di quel che merito, proprio mentre me ne vado?». È come se osservasse la sua condizione da estraneo. «Ti dà fastidio se fumo?». Non rinuncia. E perché dovrebbe, a questo punto?
Mi parla del libro che è riuscito a scrivere, nonostante la chemio, i lunghi periodi di inabilità non solo fisica, la scomodissima infermità che gli rende difficili movimenti minimi, persino raggiungere il pacchetto di sigarette (e ti precede, per evitare di essere aiutato), figurarsi i libri che rendono l’intera casa e persino la stanza-ospedale un unico, contorto corridoio di biblioteca. Sta correggendo le bozze: «Ma non riesco a licenziare più di venti pagine al giorno». Gli è difficoltoso pure leggere, lo aiutano la moglie, la figlia, che custodiscono il congiunto come un bene pubblico loro affidato dalla comunità.
Ha ricostruito oltre due secoli di politiche bancarie e finanza, sino agl’inizi della nostra storia unitaria e della spoliazione scientifica del Sud. «È necessario anche fare un’antologia della malefatte a danno del Mezzogiorno», dice. «Io non potrò. Devi farla tu. Tu e uno storico; tu per la capacità divulgativa giornalistica, lo storico per il dettaglio documentale, la cui ricerca potrebbe riuscirti troppo dispendiosa». Non so se si rende conto che sono vuoto, in questo periodo, incapace di pensare e fare: aspetto che dal sentire confuso emerga l’idea che porrà le altre in secondo piano. Non rispondo.
Finiamo per parlare di identità; e mi racconta una storia. «Ero giovane, insegnavo a Cremona, ero solo; e feci amicizia con un collega di qualche anno più giovane, ne avrà avuti 26, 27. Era figlio di un calabrese che non era più tornato nella sua regione. E della quale, lui non sapeva niente. Ne apprendeva da me. Quando tornai giù, mi seguì; lo accompagnai a Sant’Eufemia d’Aspromonte, il paese della sua famiglia. Immagina cos’era più di mezzo secolo fa, con gli escrementi delle greggi per le strade, le misere case di pietra. E lui incontrò, per la prima volta, i suoi cugini: era un professore del Nord, ben vestito, di forbito parlare; i parenti erano analfabeti, poveri, mani callose e sporche di terra e lavoro, sudore; intimiditi dal giovin signore che avevano di fronte. Lo portarono dinanzi alla casa che era stata del nonno, quella da cui era partito suo padre. E lì accadde qualcosa che ancora oggi mi sconvolge», e mentre lo dice, due rivoletti, gli scorrono dagli occhi sulle guance («Non badarci», si giustifica, «succede ai vecchi»). «Il mio amico cominciò a tremare, si avvicinò alla porta, si mise in ginocchio e scoppiò a piangere, con il viso fra le mani. Rimanemmo tutti muti, i suoi stupiti e ritrovati parenti e io. Tornò altre volte. E, infine, riportò al paese anche suo padre».
PINO APRILE