"IL QUOTIDIANO DELLA CALABRIA", 26 GIUGNO 2010
LE FOTO DELLA SERATA
IL VIDEO
(per il quale si ringrazia Ivano Verduci)
http://www.youtube.com/watch?v=o87pcg4krR4
L'INVITO
DAL LIBRO "TERRONI":
"Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a
Marzabotto. Ma tante volte, per anni.
E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni “anti-terrorismo”, come i
marines in Iraq.
Non sapevo che, nelle rappresaglie, si concessero libertà di stupro sulle donne
meridionali, come nei Balcani, durante il conflitto etnico; o come i marocchini
delle truppe francesi, in Ciociaria, nell’invasione, da Sud, per redimere
l’Italia dal fascismo (ogni volta che viene liberato, il Mezzogiorno ci rimette
qualcosa).
Ignoravo che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli d’Italia ebbero pure
diritto di saccheggio delle città meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma.
E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu Ghraib, i francesi in
Algeria, Pinochet in Cile. Non sapevo che in Parlamento, a Torino, un deputato
ex garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al Sud a quelle di «Tamerlano,
Gengis Khan e Attila».
Un altro preferì tacere «rivelazioni di cui l’Europa potrebbe inorridire».
E Garibaldi parlò di «cose da cloaca». Né che si incarcerarono i meridionali
senza accusa, senza processo e senza condanna, come è accaduto con gl’islamici a
Guantánamo. Lì qualche centinaio, terroristi per definizione, perché musulmani;
da noi centinaia di migliaia, briganti per definizione, perché meridionali. E,
se bambini, briganti precoci; se donne, brigantesse o mogli, figlie, di
briganti; o consanguinei di briganti (sino al terzo grado di parentela); o
persino solo paesani o sospetti tali. Tutto a norma di legge, si capisce, come
in Sudafrica, con l’apartheid.
Io credevo che i briganti fossero proprio briganti, non anche ex soldati
borbonici e patrioti alla guerriglia per difendere il proprio paese invaso.
Non sapevo che il paesaggio del Sud divenne come quello del Kosovo, con
fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi che bruciavano sulle colline e colonne
di decine di migliaia di profughi in marcia.
Non volevo credere che i primi campi di concentramento e sterminio in Europa li
istituirono gli italiani del Nord, per tormentare e farvi morire gli italiani
del Sud, a migliaia, forse decine di migliaia (non si sa, perché li squagliavano
nella calce), come nell’Unione Sovietica di Stalin.
Ignoravo che il ministero degli Esteri dell’Italia unita cercò per anni «una
landa desolata», fra Patagonia, Borneo e altri sperduti lidi, per deportarvi i
meridionali e annientarli lontano da occhi indiscreti.
Né sapevo che i fratelli d’Italia arrivati dal Nord svuotarono le ricche banche
meridionali, regge, musei, case private (rubando persino le posate), per pagare
i debiti del Piemonte e costituire immensi patrimoni privati.
E mai avrei immaginato che i Mille fossero quasi tutti avanzi di galera.
Non sapevo che, a Italia così unificata, imposero una tassa aggiuntiva ai
meridionali, per pagare le spese della guerra di conquista del Sud, fatta senza
nemmeno dichiararla.
Ignoravo che l’occupazione del Regno delle Due Sicilie fosse stata decisa,
progettata, protetta da Inghilterra e Francia, e parzialmente finanziata dalla
massoneria (detto da Garibaldi, sino al gran maestro Armando Corona, nel 1988).
Né sapevo che il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al momento
dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati del mondo (terzo, dopo
Inghilterra e Francia, prima di essere invaso).
E non c’era la “burocrazia borbonica”, intesa quale caotica e inefficiente: lo
specialista inviato da Cavour nelle Due Sicilie, per rimettervi ordine, riferì
di un «mirabile organismo finanziario» e propose di copiarla, in una relazione
che è «una lode sincera e continua». Mentre «il modello che presiede alla nostra
amministrazione», dal 1861, «è quello franco-napoleonico, la cui versione
sabauda è stata modulata dall’unità in avanti in adesione a una miriade di
pressioni localistiche e corporative» (Marco Meriggi, Breve storia dell’Italia
settentrionale).
Ignoravo che lo stato unitario tassò ferocemente i milioni di disperati
meridionali che emigravano in America, per assistere economicamente gli armatori
delle navi che li trasportavano e i settentrionali che andavano a “far la
stagione”, per qualche mese in Svizzera.
Non potevo immaginare che l’Italia unita facesse pagare più tasse a chi stentava
e moriva di malaria nelle caverne dei Sassi di Matera, rispetto ai proprietari
delle ville sul lago di Como.
Avevo già esperienza delle ferrovie peggiori al Sud che al Nord, ma non che,
alle soglie del 2000, col resto d’Italia percorso da treni ad alta velocità, il
Mezzogiorno avesse quasi mille chilometri di ferrovia in meno che prima della
Seconda guerra mondiale (7.958 contro 8.871), quasi sempre ancora a binario
unico e con gran parte della rete non elettrificata.
Come potevo immaginare che stessimo così male, nell’inferno dei Borbone, che per
obbligarci a entrare nel paradiso portatoci dai piemontesi ci vollero orribili
rappresaglie, stragi, una dozzina di anni di combattimenti, leggi speciali,
stati d’assedio, lager? E che, quando riuscirono a farci smettere di preferire
la morte al loro paradiso, scegliemmo piuttosto di emigrare a milioni (e non era
mai successo)? Ignoravo che avrei dovuto studiare il francese, per apprendere di
essere italiano: «Le Royaume d’Italie est aujourd’hui un fait» annunciò Cavour
al Senato. «Le Roi notre auguste Souverain prend pour lui-même et pour ses
successeurs le titre de Roi d’Italie.»
Credevo al Giosuè Carducci delle Letture del Risorgimento italiano: «Né mai
unità di nazione fu fatta per aspirazione di più grandi e pure intelligenze, né
con sacrifici di più nobili e sante anime, né con maggior libero consentimento
di tutte le parti sane del popolo». Affermazione riportata in apertura del libro
(Il Risorgimento italiano) distribuito gratuitamente dai Centri di Lettura e
Informazione a cura del ministero della Pubblica Istruzione Direzione Generale
per l’Educazione Popolare, dal 1964. Il curatore, Alberto M. Ghisalberti,
avverte che, «a un secolo di distanza (…), la revisione critica operata dagli
storici possa suggerire interpretazioni diversamente meditate (…) della più
complessa realtà del “libero consentimento” al quale si riferisce il poeta». Chi
sa, capisce; chi non sa, continua a non capire.
Scoprirò poi che Carducci, privatamente, scriveva: «A Lei pare una bella cosa
questa Italia?»; tanto che, per lui, evitare di parlarne «può anche essere opera
di carità». (Storia d’Italia, Einaudi).
Io avevo sempre creduto ai libri di storia, alla leggenda di Garibaldi.
Non sapevo nemmeno di essere meridionale, nel senso che non avevo mai attribuito
alcun valore, positivo o negativo, al fatto di essere nato più a Sud o più a
Nord di un altro. Mi ritenevo solo fortunato a essere nato italiano. E fra
gl’italiani più fortunati, perché vivevo sul mare.
A mano a mano che scoprivo queste cose, ne parlavo. Io stupito; gli ascoltatori
increduli. Poi, io furioso; gli ascoltatori seccati: esagerazioni, invenzioni e,
se vere, cose vecchie. E mi accorsi che diventavo meridionale, perché,
stupidamente, maturavo orgoglio per la geografia di cui, altrettanto
stupidamente, Bossi e complici volevano che mi vergognassi.
Loro che usano “italiano” come un insulto e abitano la parte della penisola che
fu denominata “Italia”, quando Roma riorganizzò l’impero (quella meridionale
venne chiamata “Apulia”, dal nome della mia regione. Ma la prima “Italia” della
storia fu un pezzo di Calabria sul Tirreno).
Si è scritto tanto sul Sud, ma non sembra sia servito a molto, perché «ogni
battaglia contro pregiudizi universalmente condivisi è una battaglia persa» dice
Nicholas Humphrey (Una storia della mente). «Perché non riprendi una delle tante
pubblicazioni meridionaliste di venti, trent’anni fa, e la ristampi tale e
quale? Chi si accorgerebbe che del tempo è passato, inutilmente?» suggeriva
ottant’anni fa a Piero Gobetti, Tommaso Fiore che poi, per fortuna, scrisse Un
popolo di formiche. E oggi, un economista indomito, Gianfranco Viesti (Abolire
il Mezzogiorno), allarga le braccia: «Parlare di Mezzogiorno significa parlare
del già detto, e del già fallito».
Perché tale stato di cose è utile alla parte più forte del paese, anche se si
presenta con due nomi diversi: “Questione meridionale”, ovvero dell’aspirazione
del Sud a uscire dalla subalternità impostagli; e “Questione settentrionale”, di
recente conio, ovvero della volontà del Nord di mantenere la subalternità del
Sud e il redditizio vantaggio di potere conquistato con le armi e una
legislazione squilibrata.
Dopo centocinquant’anni, questo sistema rischia di spezzare il paese. Si sa; e
si finge di non saperlo, perché troppi sono gl’interessi che se ne nutrono.
Così, accade che la verità venga scritta, ma non sia letta; e se letta, non
creduta; e se creduta, non presa in considerazione; e se presa in
considerazione, non tanto da cambiare i comportamenti, da indurre ad agire “di
conseguenza”.