L'ARMATA DI MARE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE
IN MOSTRA A GERACE
INAUGURAZIONE E DURATA DELLA MOSTRA
I BORBONE NON ERANO "BORBONICI"
NEI DIPINTI DI SALVATORE SERIO
L’inaugurazione della mostra si svolgerà a Gerace, a Palazzo del Tocco, domenica 10 agosto 2003 alle ore 21,00. Dopo il saluto del Sindaco e del Prof. Nicola Zitara, Presidente dell’Associazione Due Sicilie, vi sarà l’intervento di Gianfrancesco Solferino dal titolo “Nostalgia di potenza: La Marina borbonica nell’opera di Salvatore Serio”. Seguirà la relazione di Mariolina Spadaro, docente presso l’Università di Napoli, su “La Marina Militare del Regno delle Due Sicilie”. La serata si concluderà con un rinfresco offerto dall’Amministrazione Comunale di Gerace.
Le opere dell’artista messinese raffigurano, in navigazione o in rada nei porti meridionali, diverse navi dell’antico regno, la cui flotta militare e mercantile era divenuta per importanza non solo la prima in Italia, ma la seconda flotta mercantile e la terza flotta da guerra in Europa.
La mostra rimarrà aperta al pubblico dall’11 al 31 agosto 2003. Per ulteriori informazioni è possibile contattare il n. 340.9021276.
Pirofregata Roberto (Olio su tela, cm. 60x50)
dal settimanale "la Riviera", 10 agosto 2003
NOSTALGIA DI POTENZA
Questa sera (10 agosto) sarà inaugurata a Gerace una mostra di pittura di Salvarore Serio. Il titolo “Nostalgia di potenza” è singolare, ma esatto. Difatti, il mondo poetico del maestro, in questa fase matura della sua produzione, si fa coinvolgere dal tempo in cui il Sud “era”. Il motivo “noi eravamo” è presente in molte opere di scrittori meridionali venute dopo la truffa unitaria. Ma per avere un’esatta consapevolezza dell’identità perduta – e rimpiangerla - bisogna conoscere gli scritti di autori, italiani e stranieri, che l’Italia unita sotto i toscopadani preferisce ignorare.
In generale la rievocazione del passato, specialmente del passato “ferino”, guerriero, bellicoso di ciascun popolo, ha ampi spazi in letteratura, a cominciare dall’Iliade e dall’Odissea. Chi andava a scuola nei decenni scorsi studiava essenzialmente di guerre e di guerrieri. La poetica guerriera e ferina ebbe un suo spazio anche nell’arte figurativa rinascimentale (per esempio, Paolo Uccello).
Per fortuna i tempi sono cambiati e non credo che oggi ci siano pittori che idealizzino gli “eroi” del Vietnam e quelli dell’Afganistan. Al Sud, che io ricordi, tranne Salvator Rosa, la pittura delle armi e del guerresco non ha avuto gran proseliti. I meridionali erano inclini a idealizzare il paesaggio, che è poi una specie di pacifica e poetica storia di un luogo. Il modello ancora tiene banco, sia a grande livello (per esempio, Renato Guttuso) sia a livello medio, e persino a livello di dilettanti. Ciò premesso, dobbiamo domandarci se Salvatore Serio, pittore di vascelli dell’età borbonica, che non sono paesaggio, ma simboli di guerra e di commerci, è andato fuori strada.
La pittura – almeno quella non astratta – trasmette messaggi sintetici. I meccanismi celebrali sono messi in moto (dal dipinto) immediatamente, senza la mediazione del ragionamento. Un dipinto è “ragione” allo stato puro. Se convince, non ha bisogno d’essere spiegato. E infatti non lo farò (oltre tutto, non lo saprei fare). Però ho riflettuto sull’ ”argomento” (i vascelli) che Salvatore Serio dipinge, indipendentemente dal pregio delle opere, e ho dato a me la spiegazione che riporto qui di seguito.
La storia “ferina” - e non solo questa – è di regola scritta dal vincitore. Le antiche genti dell’Italia del Sud (per i greci e per i romani, Italia punto e basta) sono senza storia perché la loro storia è stata scritta dai “nemici”. Gli storici greci hanno considerato come loro compatrioti gli eroi espressi dalle colonie sparse per tutto il Sud, solo perché parlavano la loro stessa lingua. Hanno considerato come stranieri gli eroi delle cento popolazioni italiche che si sono opposte ai coloni, anche se poi dette popolazioni si sono fuse con i coloni greci, e anche se ciò avvenne con un rapporto sicuramente di grande prevalenza numerica e demografica degli aborigeni. Di questi eroi conosciamo, si e no qualche nome, che peraltro nessuno ricorda e cura di ricordare. Altrettanto fecero i romani. Le popolazioni italiche, specialmente i sanniti e i bruzii dettero loro filo da torcere. I sanniti arrivarono sotto le porte di Roma e stavano per conquistarla, i bruzii parteggiarono costantemente per i nemici di Roma, da Annibale a Spartaco. Ma gli storici romani hanno sorvolato sull’identità del vinto. Dei sanniti e dei bruzii non sappiamo molto, e dei loro eroi anche meno. Comunque, omologati ai romani, i greci d’Italia e gli italici adottarono gli eroi dei vincitori: Scipione, Marcello, Silla, etc., cioè coloro che avevano massacrato i loro padri e nonni. Mille anni dopo, altri vincitori, come Ruggero il Normanno, i suoi fratelli, cugini e figli, dopo aver ammazzato a destra e a manca, assursero a eroi nostri. Dalla conquista di Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia (1266), all’arrivo a Napoli di Carlo di Borbone-Farnese (1734), che secondo gli illuministi napoletani finalmente assicurava al Regno delle Due Sicilie l’indipendenza dalla Spagna e dall’Austria, ci sono cinque secoli bui. Secondo i libri di storia, in questi cinque secoli, il Sud espresse un solo eroe, che peraltro era un pescivendolo: l’amalfitano Tommaso Aniello (o Anello), detto Masaniello (1647). Gli altri erano, chi spagnolo e chi francese, chi venduto agli spagnoli e chi venduto ai francesi. Una forte carenza di eroi avrebbe connotato fino all’ultimo la storia sudica, se Benedetto Croce non avesse messo sugli altari gli eroi della rivoluzione napoletana del 1799, cioè coloro che avevano governato Napoli dopo la conquista delle truppe francesi, eroiche autrici di un civilissimo e rivoluzionario massacro di lazzaroni e di altri popolani senza qualifica. Da quel momento il nostrano eroismo procede con l’antica inversione. Gli invasori – a cominciare da Garibaldi - sono eroi, e i resistenti dei nemici della patria, della civiltà e del progresso. I contadini, quando uccidono, se sono meridionali diventano briganti, e la storia li esecra, se invece sono toscopadani vengono eletti partigiani e resistenti, e i sopravvissuti si prendono la medaglia e la pensione.
Il rapporto tra i contadini meridionali e la “patria” italiana fu zoppicante per più di mezzo secolo. Poi la patria ebbe bisogno che essi si facessero massacrare sulle Balze del Trentino, cosicché comincio la presa per i fondelli. Il governo promise la distribuzione delle terre incolte e l’eversione dei latifondi. Logicamente, vinta la guerra, non fece alcunché. Mussolini, venuto subito dopo, insistette. Anche lui aveva bisogno dei contadini per le sue future conquiste, così promise loro le terre d’Africa. Lui spento, comunisti e democristiani ripresero la solfa delle terre incolte e malcoltivate, e dell’eversione dei latifondi. Quel che successe fu invece che i contadini emigrarono per fare gli operai, chi a Milano, chi a Colonia, chi a Zurigo. Come loro epos patriottico, si portarono dietro l’immagine della Madonna, quella di San Rocco, uno “stuppello” di fagioli, e una “grasta” di peperoncini rossi. Infatti, diversamente dai polacchi, dagli irlandesi, dai russi, dai greci, dai sudamericani, dai turchi, erano una popolazione deprivata di eroi “ferini”.
Diverso il discorso per la borghesia. I borghesi e i nobili del 1799 e del 1860 volevano le terre della Chiesa e dei Comuni, ovviamente senza pagarle. Perciò adottarono Garibaldi e disconobbero i Borbone. Ciò nonostante i toscopdani vollero i soldi, cosicché i meridionali dovettero pagare ai settentrionali le terre meridionali dei Comuni meridionali e della Chiesa meridionale. Insomma una fregatura. Tuttavia, il padronato aveva ormai scelto. I carabinieri erano già qui, i bersaglieri pure. (Gli alpini della Julia e della Tridentina, con relativi muli, ancora no. Bisognerà aspettare che i cafoni meridionali facciano cambiare ai triestini e ai trentini la cittadinanza austriaca con la cittadinanza italiana).
Fino a quando la navigazione nazionale fu mantenuta dallo Stato, la città che più trasse vantaggio dalla colonizzazione meridionale fu Genova. Con l’avvento dell’immarcescibile Duce, la palma è passata a Milano. Prima dell’unità, Milano aveva un quarto della popolazione e del commercio di Napoli, era una città di acquartieramenti militari, prima di truppe napoleoniche e poi di truppe austriache. Più che altro, era una città di morti di fame, di delinquenti, di prostitute, di ammalati di tifo e di tubercolosi, e soprattutto di ladri (i lombardi rubarono ventimila zaini, abbandonati a terra per correre all’assalto degli austriaci, dagli zuavi di Napoleone III, disceso fino alle rive del Ticino e dell’Adda per fondare l’Italia una, cioè toscopadana). Con l’Italia unita, Milano ha perfezionato lo stile e adesso ruba in guanti bianchi. Andandole egregiamente gli affari, è divenuta anche presuntuosa e saccente (basta ascoltare tre parole di Bossi per averne la prova). Purtroppo per lei, e forse anche per il presidente Ciampi, a questo punto la disonesta funzione di Garibaldi messo in arcioni al centro delle nostre piazze è finita. I meridionali cominciano a scoprire che nel loro passato non ci sono solo “u pignatu ca suriaca” e “u pipi russu”. Quasi sempre vinti e sottomessi, hanno però sempre lottato per la loro indipendenza e libertà. Dopo 140 anni di presa per i fondelli e di vero servilismo, adesso il vaso è colmo, la stupidità tramontata. Giorno dopo giorno vanno scoprendo che, prima che i toscopadani, Garibaldi, Vittorio Savoia, i bersaglieri e i carabinieri li negassero, “erano”. Erano un popolo libero, che contava nel mondo più di qualunque altra popolazione italiana. Avevano per capitale una città molto più antica di Roma e per lungo tempo più grande di Parigi e di Londra. Avevano dei re nazionali, che sempre re erano, però buoni, civili, amanti del popolo; re che, diversamente da Carlo Alberto, non ricorrevano alle forche per disfarsi dei loro nemici. Re leali, dignitosi, che conobbero veramente la via dell’onore. E avevano una grande flotta militare, e una flotta mercantile forse più importante di quella francese registrata a Marsiglia.
Ed è lì, il nostro passato “ferino”, e non certo in un figuro di scarsa intelligenza e moralmente non affidabile, come Garibaldi. E neppure nei corazzieri, nei bersaglieri, nel tricolore che sventola sull’antico palazzo dei Papi, il Quirinale.
NICOLA ZITARA
dal settimanale "la Riviera", 17 agosto 2003
I BORBONE NON ERANO "BORBONICI"
Per noi della Locride, Gerace è il gioiello che dal tempo dei Normanni ad oggi si tramanda in famiglia di generazione in generazione. Chi dalla marina “sale” verso la rocca viene accolto dalle braccia degli ulivi solenni e dal sacro profumo del passato, dall’armonia che fa convivere la vecchia abitazione con la solenne Cattedrale.
Il 10 agosto scorso, la luna piena ha accolto gli invitati che sono convenuti nella bella sala della Sottoprefettura (borbonica), gentilmente messa a disposizione dal Sindaco, ad ammirare le opere del maestro messinese Savatore Serio.
Non sono un critico d’arte, ma solo una persona che ama l’arte in tutte le sue molteplici manifestazioni. Da osservatrice disarmata, passando a guardare un quadro dopo l’altro ho sentito il suono di antiche campane e all’improvviso ho trovato, dentro di me, l’anima dei miei avi da tempo defunti, della gente che è vissuta negli antichi borghi, il sapore acre della mia terra distesa al sole tra le interminabili marine del Mar Jonio e le coste accidentate del Tirreno. A Gerace anche le rondini raccontano del passato, e le tele di Salvatore Serio fanno loro eco. Vascelli, golette, brigantini, vapori postali, navi da guerra e navi mercantili riscrivono un mondo antico e ignorato, cantano la loro defunta presenza sul ritornello dell’onda marina, che va e che viene. Mi pare di vivere nel sogno. Vedo un popolo forte, un popolo ricco, un popolo che lavora, uno stato potente. E’ il nostro popolo meridionale. La musica giovanilmente assordante che sale da Piazza del Tocco mi sveglia di soprassalto e mi riporta alla realtà. E allora prendo coscienza delle cose: i Borbone non erano ignoranti, non erano pigri, non erano degli stupidi tiranni, come dettano i maestri di scuola. In tre sole parole, i Borbone non erano “borbonici”. Il mondo vinto, stanco, dimentico di essere e di essere stato, che viene dai giornali, dalla cattedra, dalla televisione è un falso storico. Chi ci ha conquistati e sottomessi nega la nostra storia. E negando a noi il fatto di “essere stati”, nega sé stesso, la propria grandezza. L’imbroglio sabaudo e garibaldino pesa incredibilmente sulla storia degli Italiani, ne offusca la grandezza per un vergognoso calcolo economico.
Dalle opere di Salvatore Serio riemerge un mondo sconosciuto a noi meridionali e a tutti gli italiani. I suoi dipinti, romantici e nostalgici, come li ha definiti lo studioso dell’arte meridionale, Gianfrancesco Solferino, mostrano uno spaccato di storia vera, non falsificata dall’ideologia del potere sabaudo. E aggiunge Solferino: la nostalgia che traspare dalle sue opere non è sterile, non è fine a sé stessa. Vuole essere uno sprone a ritrovare il mondo che ci è appartenuto e che non riconosciamo più, perché la nostra storia è stata cancellata. Oggi, di fronte ai dipinti di Salvarore Serio, c’è proprio da chiedersi se è vero che le Due Sicilie erano povere, i suoi abitanti miserabili, rozzi, inetti, e inetti erano i Borbone. Chi alzava le vele e metteva in moto le macchine in una flotta che contava centinaia di vascelli e disponeva di una vasta rete di navi postali e di navi passeggeri, che effettuava le prime crociere da diporto che siano mai state effettuate al mondo?
La professoressa Mariolina Spadaro, con una elegante prolusione, ha dissipato le nebbie della storia. Ha detto cose su cui è doveroso ritornare per riflettere. Festosa la chiusura della manifestazione con uno splendido buffet offerto dall’Amministrazione di Gerace.
ANTONIA CAPRIA